I ragazzi di Allende, cronaca di un golpe fascista

Mentre scrivevo il libro “Figli rubati” ho avuto il privilegio di incontrare e di poter parlare con familiari degli uomini del Gap (Grupo de amigos del presidente), la scorta più fidata di Allende, e con alcuni protagonisti sopravvissuti all’attacco alla Moneda. Tra questi ricordo Julio Soto. Julio faceva parte del Gap era uno dei sei autisti personali del presidente e quella mattina fu lui che lo portò al Palazzo. Dopo di che imbracciò il fucile e la battaglia impari iniziò. Se avete qualche minuto di tempo, ecco cosa mi ha raccontato di quelle drammatiche ore – Federico Tulli

Foto di WikiImages da Pixabay

«Prima ci attaccarono i soldati, poi arrivarono i carri armati, infine gli aerei. Ricorda, se devi sventare un golpe con un fucile non sparare mai a un aereo mirando alla fiancata. Devi colpirlo davanti, dove c’è il pilota». Julio Soto Cespedes mi guarda fisso negli occhi mentre racconta le ultime drammatiche ore della giovane democrazia cilena nel giorno del colpo di Stato ordito dal generale Augusto Pinochet contro il presidente Salvador Allende. Il suo volto per un attimo si indurisce, capisco che non sta facendo dell’ironia. L’11 settembre 1973 Soto aveva 24 anni ed era un uomo del Gap (Grupo de amigos del presidente), la scorta più fidata del «Dottore» – così lo chiama durante l’intervista -, un nucleo scelto di giovani militanti del Partito socialista.

Con il nome di battaglia “Joaquín” era uno dei sei autisti personali di Allende. È lui che portò il presidente alla Moneda la mattina del golpe a bordo della famosa Fiat 125 scura. «Gli chiesi cosa stesse accadendo. “Si è insubordinata la Marina”, rispose. “Corri, dobbiamo arrivare alla Moneda prima della Marina”. In auto non abbiamo più parlato. Impiegai meno di dieci minuti per coprire i 15 km tra casa sua e il palazzo. Siamo arrivati verso le 7.20 e sembrava tutto calmo».

Allende era stato allertato alle 6.30 con una telefonata del generale Jorge Urrutia da Valparaiso, città costiera a 140 km da Santiago del Cile: la Marina si era impadronita del più grande porto cileno. Il golpe era cominciato. Incontrai Soto a Roma nel 2015 in occasione del processo che si svolgeva all’aula bunker di Rebibbia contro alcuni dei principali attori dell’Operazione Condor responsabili del sequestro e omicidio di 42 cittadini italiani.

Tra i fautori di questa operazione coordinata tra i governi e le polizie di almeno sette Paesi del Cono Sur (Argentina, Cile, Paraguay, Uruguay, Bolivia, Brasile e Perù), che negli anni 70 eliminò tutte le democrazie Latinoamericane, c’era il generale Augusto Pinochet, il braccio armato del colpo di Stato cileno ideato, pianificato, finanziato e realizzato sotto l’ala protettrice degli Stati Uniti e dalla Cia di Nixon, di Kissinger, del Club del lunedì etc… Per oltre 15 anni Pinochet sarà il fulcro della internazionale fascista del terrore che agendo al di fuori di qualsiasi alveo costituzionale represse, perseguitò, torturò, eliminò e fece scomparire decine di migliaia di attivisti di sinistra e chiunque fosse impegnato nella lotta per i diritti civili. I più fortunati furono costretti all’esilio.

Soto è stato testimone nel filone del processo Condor che riguarda la sorte di Juan Montiglio Murua, un italo-cileno di origini piemontesi coetaneo di Soto, militante del Partito socialista e capo del Gap, la scorta di Allende, con il nome in codice Anibal. «L’11 settembre Montiglio fu arrestato, torturato, fucilato e fatto saltare in aria con delle bombe a mano nella caserma Tacna insieme ad altri Gap. È uno dei 3mila desaparecidos cileni: il suo corpo non è mai stato ritrovato». Nel 1979 Pinochet, seguendo l’esempio della dittatura argentina, con l’operazione chiamata “Ritiro dei televisori” ordinò di far sparire i resti dei prigionieri politici, riesumandoli e gettandoli in mare.

«”Combattiamo per difendere la democrazia, la Costituzione e lo Stato di diritto. Chi vuole arrendersi ora può farlo”, ci disse Allende una volta dentro il Palazzo. Montiglio si trovava a pochi metri da me. Eravamo in 34, nessuno depose le armi. Secondo un piano prestabilito ci dividemmo in due gruppi. Io mi appostai con altri sette sul tetto del ministero dei Lavori pubblici che è molto più alto della Moneda. Avevamo un lanciagranate, un fucile mitragliatore e degli Ak47. Da lì sopra avremmo potuto colpire chiunque». Consapevole di quello che lo aspettava, Allende si rivolse al Paese via radio, chiese ai lavoratori di recarsi nelle fabbriche e di attendere istruzioni. Nella Moneda tutti erano pronti a combattere fino all’ultimo, armati alla meglio.

«L’idea era di resistere fino a quando il popolo cileno non avesse preso coscienza della gravità degli eventi». Ma la situazione in breve precipitò. Poco dopo arrivò la fanteria inviata da Pinochet. I soldati cominciarono a sparare. I difensori del Palazzo risposero al fuoco. Poi però giunsero anche i carri armati in appoggio dei golpisti. Infine gli aerei. «Scendevano verso la Moneda per sganciare le bombe, ci passavano davanti. Non siamo riusciti ad abbatterli. Eravamo stati addestrati per difendere il Dottore in caso di attentato, non per combattere una guerra. Pinochet a sorpresa era riuscito a mettere insieme esercito, marina ed aviazione».

Dopo il suo ultimo messaggio alla nazione, poco prima che il generale Javier Palacios ordinasse l’assalto finale, Allende intimò ai suoi di arrendersi e li salutò. Imbracciando il mitra ricevuto in regalo da Fidel Castro si chiuse nel suo studio privato e si sparò. «Forse pensò che in questo modo ci avrebbero risparmiato. Purtroppo non è andata così. Se i miei compagni avessero intuito cosa li aspettava non si sarebbero lasciati ammanettare. Sarebbero morti combattendo». Secondo Soto, la ferocia con cui sono stati eliminati alla Tacna è dipesa dal fatto che in 34 sono riusciti a tener testa all’attacco per quasi otto ore. «Io mi sono salvato confondendomi tra il personale del ministero durante l’evacuazione. A fine settembre fui arrestato e condannato a cinque anni di carcere. Dopo due anni di torture il 25 settembre 1975 la pena mi fu commutata in esilio».

Juan Soto si è recato in Svezia dove il premier socialista Olof Palme garantiva l’asilo ai militanti sud americani. Infine si è stabilito in Germania, a Berlino. Qui si è innamorato di una donna tedesca. Ha svolto molti lavori ed è stato consulente di Baltazar Garzon nell’inchiesta che consentì al giudice spagnolo di arrestare Pinochet nel 1998. Oggi è in pensione. «Viviamo tra la Svezia e la parte est di Berlino, nostra figlia studia medicina. Ogni tanto ritorno in Cile dove non ho potuto rimettere piede fino al 1989 ma non mi trovo granché bene». (All’epoca di questa intervista la democrazia cilena era molto fragile, poggiando ancora sulla Costituzione varata da Pinochet).

«Con il caso Montiglio a Roma per la prima volta al mondo si parla del golpe di Stato cileno in un’aula giudiziaria. Si tratta di crimini contro l’umanità ma nel mio Paese la polizia fa solo finta di indagare» disse Soto salutandomi.

Il video del bombardamento alla Moneda è stato realizzato da Cooperativa l’11 settembre 1973; la voce è del giornalista Juan La Rivera

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