I preti pedofili e la trappola del confessionale (denunciata un secolo fa anche da Gramsci)

Innalzare a 12-14 anni l’età della comunione salverebbe i bambini che frequentano parrocchie, oratori e istituti religiosi dal rischio di subire violenza

Federico Tulli, Roma – La Pontificia commissione per la tutela dei minori è una delle cartina di tornasole della mancanza di reale volontà della Chiesa di Roma di risolvere alla radice il fenomeno della pedofilia clericale. Annunciata nel febbraio del 2012 – sotto Benedetto XVI – durante un Simposio sulla pedofilia organizzato alla Gregoriana di Roma e partecipato dalle conferenze episcopali di tutto il mondo, ri-annunciata a dicembre 2013 dalla Santa Sede e presentata al mondo come un chiaro segnale dei buoni propositi di papa Bergoglio proprio nei giorni in cui saliva la tensione per l’inchiesta anti-pedofilia realizzata dall’Onu e si concretizzavano le accuse del Comitato per i diritti del fanciullo riguardo i sistematici insabbiamenti adottati e/o avallati negli ultimi 20 anni dai gerarchi vaticani, papi compresi, la Commissione entrò in funzione nel marzo del 2014 con la nomina dei primi otto saggi. E in tutti questi anni ha vivacchiato senza aver partorito alcun consiglio di rilievo. Non se ne è sentito più parlare per anni fino a quando nei giorni scorsi un membro “influente” non ha annunciato le sue dimissioni: ci riferiamo al gesuita padre Hans Zollner che il 3 marzo scorso è stato nominato consulente per il Servizio per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili della Diocesi di Roma. Ma non è tanto di questo che vogliamo parlare.

Quando entrerà a pieno regime – disse nel 2014 il portavoce della Santa sede il portavoce p. Federico Lombardi – tale organismo contribuirà «alla missione del Papa di rispondere alla sacra responsabilità di assicurare la sicurezza ai giovani». In che modo però non è mai stato del tutto chiaro. A tal proposito val ela pena ricordare un piccolo suggerimento agli altri componenti della commissione che fu fornito da Marie Collins una donna irlandese violentata durante l’adolescenza chiamata da papa Francesco a rappresentare le vittime di tutto il mondo: «Per ridurre i rischi che derivano dalla vicinanza tra i bambini e i sacerdoti pedofili non ancora intercettati si innalzi di almeno 5-7 anni l’età minima per ricevere il sacramento dell’eucarestia che oggi è di 7 anni» disse Collins che all’epoca era una dei due soli membri laici della Commissione (insieme all’avvocato Peter Saunders, entrambi si dimisero a pochi mesi di distanza tra il 2016 e il 2017 per l’impossibilità di lavorare concretamente).

Un semplice accorgimento – innalzare a 12-14 anni l’età della comunione per i bambini credenti -, che non è un’eresia poiché per circa sette secoli, fino al 1910, la prima comunione è stata conferita dall’età di 12-14 anni in poi. Età in cui, terminato il catechismo, il giovane credente avrebbe dovuto avere una sufficiente conoscenza della dottrina cristiana. La modifica è avvenuta sotto il pontificato di Pio X, l’8 agosto 1910 quando la Congregazione dei riti ha emesso il Decreto Quam singulari, ritenendo che non fosse necessaria la conoscenza di tutta la dottrina per ricevere validamente il sacramento, ma che fosse sufficiente aver raggiunto l’età della discrezione per distinguere “il bene dal male”.

Il Decreto di fatto ripristinò l’uso tradizionale della Chiesa, stabilito nel 1215 dal Concilio Lateranense IV e confermato dal Concilio di Trento nella XIII Sessione (1551-1552). Nonostante le prescrizioni di Trento, l’età della prima comunione era stata spostata in avanti, verso i 12-14 anni, per l’influsso del giansenismo.

La decisione della Congregazione dei riti è un atto a prima vista innocuo e inteso a recuperare ‘tradizioni’ antiche; ma, suo malgrado, potrebbe aver avuto un ruolo decisivo nella sconcertante dimensione che il fenomeno della pedofilia clericale ha improvvisamente assunto nel mondo lungo tutto l’arco del Novecento.

Il primo a denunciare senza mezzi termini le insidie del confessionale fu niente di meno che Antonio Gramsci, il quale nei Quaderni del carcere scrive: «Una delle misure più importanti escogitate dalla Chiesa per rafforzare la sua compagine nei tempi moderni è l’obbligo fatto alle famiglie di far fare la prima comunione ai sette anni. Si capisce l’effetto psicologico che deve fare sui bambini di sette anni l’apparato cerimoniale della prima comunione, sia come avvenimento familiare individuale, sia come avvenimento collettivo: e quale fonte di terrori divenga e quindi di attaccamento alla Chiesa. Si tratta di “compromettere” lo spirito infantile appena incomincia a riflettere» (Quaderno 5, 1930-1932, cfr. Noemi Ghetti, “Gramsci nel cieco carcere degli eretici”, L’Asino d’oro ed., 2014).

Nel 2010 l’allarme viene rilanciato da un magistrato italiano durante una famosa intervista rilasciata al Giornale che fece molto scalpore. «Il prete che abusa di un bambino è più paragonabile a un genitore incestuoso che a un pedofilo di strada che insidia i bambini ai giardinetti». Iniziava così una lucida analisi del procuratore aggiunto di Milano, Pietro Forno, titolare di numerose inchieste contro sacerdoti accusati di pedofilia e tra i maggiori esperti in Europa.

Quando Forno risponde alle domande di Luca Fazzo siamo nel pieno degli scandali che stanno sconvolgendo mezza Europa. «Bisogna partire da un dato di fatto – prosegue il magistrato -, il sacerdote ha un enorme potere spirituale, tanto che spesso viene chiamato ‘padre’, e questo è significativo. Se guardiamo questi episodi in senso non biologico ma spirituale e morale, ci troviamo di fronte più a un abuso incestuoso che a un classico stupro. Ricordo che anche nelle cronache si parla di atti avvenuti in confessionale. E io mi chiedo: perché proprio in confessionale? Perché proprio in quel luogo e in quel momento? Perché è in quel momento che più intensamente il sacerdote si presenta come rappresentante di Dio. È stato condannato a Milano un sacerdote che nel confessare ragazze di 14 o 15 anni le faceva spogliare e le palpeggiava dicendo: ‘Lo vuole Gesù’. Ecco, il concetto del ‘lo vuole Gesù’ è il punto d’arrivo dell’incesto spirituale».

Prima di Forno nessun esperto tanto meno un magistrato o uomo delle istituzioni italiane aveva osato puntare il dito contro il confessionale e i rischi ad esso connessi. E, a dire il vero, nemmeno dopo di lui poiché nel giro di poche ore si vide piombare in ufficio gli ispettori dell’allora ministro della Giustizia Alfano. Costui ufficialmente voleva accertare che Forno avesse in quella intervista rivelato dei segreti d’ufficio. Ma il messaggio latente era sin troppo chiaro e in sintonia con la linea seguita (o, forse, sarebbe meglio dire indicata) dal Vaticano dentro e fuori le mura Leonine: la pedofilia clericale è un affare interno della Chiesa e tale deve rimanere. In una parola: silenzio (cioè omertà).

La validità dell’intuizione del padre della sinistra italiana, ateo e anticlericale convinto – intuizione che è evidentemente rimasta prima intrappolata con Gramsci nel carcere fascista e poi “sepolta” con lui nei decenni della democrazia – è stata indirettamente confermata dalle testimonianze emerse dagli atti delle numerose commissioni d’inchiesta sulla pedofilia ecclesiastica pubblicati in diversi Paesi europei dal 2009 in poi (Irlanda, Olanda, Belgio, Germania, Francia etc). In sostanza dai racconti delle vittime si evidenzia un comune denominatore nel modus operandi del prete abusante: l’utilizzo della confessione e del confessionale per l’approccio alle vittime e le successive violenze psicologiche e fisiche. Praticamente durante la confessione il sacerdote carpisce informazioni e “testa” la potenziale vittima intromettendosi con domande mirate nei suoi segreti più intimi. Tant’è che una delle domande apripista più usate dai confessori pedofili riguardano i cosiddetti “atti impuri”. A questo punto il pedofilo cerca pretesti di “peccato” da utilizzare per caricare sui piccoli penitenti un tremendo senso di colpa. Queste sono alcune domande esca solitamente utilizzate per carpire informazioni e per verificare il grado di vulnerabilità del bimbo: «Hai commesso atti impuri? Quali? Ti sei toccato? Dove? Quello che hai fatto è un peccato molto grave, difficile da perdonare, lo sai? Se fai quello che ti dico, chiederò io a Dio di perdonarti, sei d’accordo? Sai mantenere un segreto?».

Vale la pena ricordare cosa disse nel 2013 il vescovo di Treviri, Stephan Ackermann, incaricato nel 2011 dalla Conferenza episcopale tedesca di far luce sullo scandalo dei preti pedofili in Germania. Monsignor Ackermann. Dopo aver ribadito di avere le prove che la Chiesa stessa ha insabbiato per decenni molti casi di abusi, limitandosi a trasferire i sacerdoti coinvolti da una diocesi all’altra, il 18 gennaio 2013 raccontò in una famosa intervista a Bild i dettagli sconvolgenti emersi dall’indagine che riguardava i casi di pedofilia negli anni dal 1950 al 1980, con circa 1.200 vittime accertate: «Nessun abuso è successo per caso. Ogni violenza che abbiamo accertato era premeditata con perfidia. I sacerdoti hanno carpito ‘pazientemente’ la fiducia delle loro vittime e, dopo la manipolazione psicologica, ne hanno abusato in momenti di tranquillità. Durante la preghiera, durante la confessione».

È importante sottolineare che le norme su cui poggia la gestione dei casi di pedofilia clericale nell’ultimo secolo – la istruzione Crimen sollicitationis del 1962 che rinnova quella del 1922 e la “lettera” De delictis gravioribus che nel 2001 a sua volta integra quella del 1962, a firma del prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, card. Joseph Ratzinger – si focalizzano sulla violazione del sacramento della confessione e sullo scandalo che ne deriva. La violazione più grave riguarda il modo con cui il sacramento viene utilizzato dal prete che non dovrebbe introdurre finalità improprie nel fare da intermediario fra Dio e il penitente.

Con l’Istruzione Crimen sollicitationis del 1962, e questa è una novità rispetto al passato, il sigillo sacramentale viene esteso impropriamente all’esterno della confessione vera e propria, con l’obbligo del segreto più assoluto sia dei preti che delle vittime, pena la scomunica. Il testo della Crimen afferma: «Il crimine di sollecitazione avviene quando un prete tenta un penitente, chiunque esso sia, nell’atto della confessione, sia prima che immediatamente dopo, sia nello svolgersi della confessione che con il solo pretesto della confessione, sia che avvenga al di fuori del momento della confessione nel confessionale, che in altro posto solitamente utilizzato per l’ascolto delle confessioni o in un posto usato per simulare l’intento di ascoltare una confessione». Insomma, praticamente sempre. E ancora: «Nello svolgere questi processi si deve avere maggior cura e attenzione che si svolgano con la massima riservatezza e, una volta giunti a sentenza e poste in esecuzione le decisioni del tribunale, su di essi si mantenga perpetuo riserbo».

Si passa a considerare non tanto la confessione come evento che si svolge in un tempo e in un luogo definiti, come accadeva dopo il Concilio di Trento con l’introduzione dei confessionali chiusi, ma l’atteggiamento confessionale del prete in toto, che consiste in quell’insieme di strategie attraverso le quali egli esercita la sua autorità sacerdotale ed entra tramite essa in intimità con la vittima. Su quanto è intercorso fra il prete e il bambino grava il segreto, così che quest’ultimo subisce due volte la violenza, venendo considerato corresponsabile e complice.

© RIPRODUZIONE RISERVATA. È VIETATA LA RIPRODUZIONE

Lascia un commento